Questa mattina, appena alzato, un paio di bip sul cellulare sono bastati per rendere ancora più grigia di quanto già non sia questa giornata guardando fuori dalla finestra. Erano alcuni amici del “giro”, più mattinieri del sottoscritto, che mi comunicavano tramite whatsapp la scomparsa, a 94 anni, di Romolo Tavoni.

Una persona che ho sempre ammirato molto, dal punto di vista professionale ma soprattutto come persona. Perchè senza fare della retorica, era una persona di vecchio stampo. Quelle che hanno una sola parola. E data quella, non servono contratti, firme e quant’altro. Punto! Una di quelle persone che parlano chiaro, perciò il grigio non esiste: o è bianco o è nero. Così uno sa come deve comportarsi. Ma la stessa persona è pronta a capire eventuali errori, dispensando preziosi consigli maturati dalla propria immensa esperienza in situazioni non sempre facili. Insomma, valori che mi ricordano quelli che, a fatica ahilui, ha saputo imprimermi mio padre. Conobbi Romolo Tavoni nel 1981, quando debuttai con la F. Monza. All’epoca eravamo circa un centinaio di piloti pronti a darci battaglia ad ogni gara (si disputavano quattro batterie di cui i primi 6 accedevano alla finale) anche per una singola posizione, ma sempre stando in campana perché il Direttore di Gara Tavoni nel corso del suo briefing ci aveva fatto capire in modo chiaro che altrimenti, poi, ci avrebbe preso per le orecchie! Apprezzai subito quel modo di fare, perché in quel momento ci stava instillando preziose iniezioni di sport. Con la S maiuscola. Nozioni che aveva appreso direttamente vivendo l’Automobilismo nelle sue forme più estreme, a stretto contatto con personaggi mitici come Enzo Ferrari (Tavoni ha lavorato in Ferrari per oltre un lustro, dal 1950 al 1962, prima come segretario del Commendatore e successivamente come Direttore Sportivo) e campioni del volante che inseguivano il successo a costo della propria vita. Perciò sapeva che pur nella sfida più estrema non bisognava mai perdere i punti di riferimenti, altrimenti poteva costare molto caro. Insomma, un mondo che adesso, obbiettivamente, non esiste più. Ma Tavoni non era solo un personaggio del passato, perché anche negli ultimi anni era sempre molto informato su quanto accadeva nel mondo dell’automobilismo e in quella che considerava un po’ la sua seconda casa, l’Autodromo di Monza dove ha lavorato per circa un quarto di secolo, e le sue idee sempre molto attuali. Insomma era sempre sul pezzo! Allo scopo, voglio ricordare un aneddoto significativo. Nel corso degli anni, durante la mia continua “alternanza” da una parte all’altra del muretto, portando avanti militanza di pilota ma iniziando nel frattempo l’attività di giornalista, avevo spesso avuto occasione di confrontarmi con Tavoni sui vari temi che riguardavano l’”ambiente”, dalla F. 1 alle cosiddette “formule minori” fino alle vicissitudini dell’Autodromo di Monza. Un giorno del 2011 mi arrivò una lettera, con sua intestazione, dove oltre all’apprezzamento per un mio articolo legato ai tentativi di ridare vita alla F. Monza mi allegava copia di una missiva inviata agli allora dirigenti monzesi nella quale faceva presente quelli che a suo avviso erano degli errori di fondo e, quindi, dei suggerimenti. Cito questo aneddoto non certo per decantare le mie lodi, ma per fare capire quanto fosse sempre attento, nonostante gli anni di lontananza, alle vicende dell’automobilismo e, in particolare, a quelle di Monza e della F. Monza. Quella lettera fu lo spunto per organizzare una visita a casa sua dove in una intervista, con la solita lucidità, toccò vari temi che sono tuttora attuali. Infatti abbiamo scelto di ricordarlo proprio con un estratto di quella intervista.

PS Magari il titolo scelto per questo saluto potrebbe apparire, cinicamente, ad effetto, ma credo che per un profondo amante, oltre che valido professionista, di questo sport l’accostamento con quella bandiera a scacchi che ha utilizzato con maestria innumerevoli volte non possa che fare piacere. Riposa in pace Direttore!

Di Eugenio Mosca – Foto Massimo Campi.

QUESTIONE DI UOMINI

… ovviamente partiamo dalla F. Monza, che ora grazie a Tavoni, come potete leggere più avanti, prosegue la sua storia di oltre mezzo secolo come F. Junior.

“L’idea fu dell’allora direttore dell’AC Milano e dell’Autodromo di Monza Luigi Bertett – racconta Romolo Tavoni -, perché diceva che una struttura come Monza con la disponibilità e il personale che ha non poteva fare solo una gara al mese. Inoltre, la Sias proprio per il suo statuto (Società Incremento Automobilismo e Sport) doveva fare qualcosa rivolto ai giovani, per essere anche sede di completamento di esperienze. Quindi, dato che io avevo conoscenze dirette del settore mi incaricò di studiare una formula adatta ai giovani, che perciò doveva costare poco. Chiesi all’ing. Massimino di studiarmi un tipo di telaio che ognuno, rispettando i parametri base, avrebbe potuto costruirsi da solo. Poi contattai l’ingegner Lampredi, a capo della progettazione dei motori Fiat, spiegandogli quello che volevamo fare. Lui mi consigliò il motore della 500 Giardiniera, perché “sogliola” e quindi con baricentro basso, accompagnandomi da un preparatore (Bosato) che ne stava provando uno al banco con qualche cavallo in più dell’originale pur mantenendo una buona affidabilità. Quando ne parlai a Massimino fece un salto sulla sedia, ma poi accettò di realizzare un telaio in base a quanto gli avevo chiesto”.

 

Come si arrivò a definire la famosa cifra di 875.000 lire di costo, che poi è stata anche la denominazione della categoria?

 

“I preparatori mi presentarono un preventivo di 1.000.000 di Lire, ma Bertett fu irremovibile: la monoposto completa doveva costare 875.000 Lire. Iva compresa! Il primo telaio fu realizzato da due ragazzi ex Maserati che lavoravano per Massimino, mentre la carrozzeria da Fantuzzi di Modena. Ed era bella. Per il motore ognuno poteva comperarselo dove voleva, ovviamente con il vincolo dei pezzi di serie a catalogo, e siccome il prezzo di 875.000 Lire era risicato tanti pensarono bene di procurarselo dagli sfasciacarrozze. Quella fu un’ottima mossa per contenere i costi”.

 

Uno degli ingredienti che ne ha decretato la longevità, vero?

 

“Certamente si. Ma soprattutto il fatto che a differenza delle formule monotipo, che sono per forza destinate a durare solo qualche anno, questa formula coinvolgeva molti tipi di figure, giovani ingegneri, studenti, meccanici, perché dava modo di sperimentare. La F. Monza la poteva costruire chiunque, perché c’erano delle misure fisse per il telaio e dei pezzi di serie per sospensioni e motore-cambio, che si potevano recuperare a poco prezzo dal demolitore. Infatti si arrivò ad avere 100 iscritti, una cosa oggi impensabile. Così si sono formati tanti giovani che poi sono passati alle categorie superiori: piloti, ma anche tecnici, meccanici, direttori sportivi, organizzatori, commissari tecnici e sportivi, direttori di gara. Poi abbiamo sempre cercato di limitare i costi. Spesso i preparatori chiedevano maggiore libertà, ma se queste modifiche andavano a incidere in modo importante sui costi non le accettavamo, perché era prioritaria l’economia della formula”. 

 

Oggi sarebbe riproponibile una formula con queste caratteristiche?

 

“Assolutamente si. A patto che tutti la possano costruire, mettendo dei paletti ben precisi su cosa si può e non si può fare, per contenere i costi. La base di tutto è come viene fatto il regolamento. Oggi c’è un’inflazione di categorie monomarca, ognuna con pochi iscritti così sono tutti campioni, mentre la selezione dei piloti in F. Monza avveniva su 100 iscritti a gara, che prima dovevano guadagnarsi il diritto di andare in finale”.

 

Però senza l’aiuto di una Casa che fornisca le parti meccaniche a costi politici diventa difficile, lei come farebbe?

 

“Farei un giro da alcuni demolitori chiedendogli quanto potrebbe costare un motore di largo utilizzo che chiunque potrebbe acquistare, quindi chiederei a un tecnico di disegnarmi un telaio in tubi fissandomi le quote, come fece Massimino, e su quelle basi chiunque potrebbe costruirsi la propria monoposto. Magari io sono rimasto fermo al secolo scorso, ma sono convinto che una formula di questo tipo debba essere meccanica, senza influenza elettronica e aerodinamica”.

 

E poi bisogna avere anche una buona dose di coraggio per imporre un’idea che si considera valida. Lei, ad esempio, fece partire la prima gara della F. Fire con solo tre macchine pur di far capire che era necessario cambiare per andare avanti, non ebbe dubbi?

 

“No. Perché, come sempre, avevamo fatto una riunione con gli addetti ai lavori dove molti si erano detti d’accordo, salvo poi tirarsi indietro per non investire dei soldi. Perciò è stata una dimostrazione di coerenza e onestà nei confronti di chi ci aveva creduto, perché noi non avevamo mai preso una decisione che andasse contro la maggioranza. Tutti dissero che Tavoni aveva bucato, ma semmai il buco sarebbe stato dell’Autodromo di cui io ero dipendente. Un rischio che io non avrei mai fatto correre all’azienda per cui lavoravo, perché io ho sempre sentito in modo forte l’appartenenza all’azienda. Così è stato in Ferrari e alla Sias. D’altro canto il dirigente deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni e può essere preso al mattino e licenziato alla sera se non ha eseguito il proprio compito. Perciò bisogna che a Monza tornino ad avere il coraggio di organizzare le gare”. 

 

A proposito, la F. Monza nacque per incrementare l’attività dell’Autodromo, mentre l’anno scorso abbiamo visto un calendario con pochissime gare motoristiche, come mai?

 

“E’ una questione di uomini! Oggi ci sono tanti trofei monomarca e altre gare organizzate da promoter privati invece che dall’Autodromo, perché non hanno la testa per farlo. E poi c’è una gestione industriale non oculata. Allora Bertett per ogni gara voleva sapere esattamente quanto avevamo incassato dalle iscrizioni e prove libere e speso per l’organizzazione, tenendo presente che una buona parte arrivava anche dalla pubblicità sul percorso: quasi 8 miliardi di lire l’anno, perché ogni mese c’era una gara internazionale. Questo perché ci davamo un gran da fare per promuovere le nostre gare. Facevamo indagini di mercato, spulciando gli elenchi di iscritti delle gare internazionali cercando di individuare chi potesse essere interessato alle nostre gare e lo contattavamo invitandolo a Monza. Invece, mi pare che negli ultimi tempi si fossero troppo accomodati. Oggi l’autodromo costa molto perché c’è troppo personale fisso e anche quello dei servizi alle gare per far contenti tutti, perciò per pareggiare i conti si continuano ad aumentare le tasse di iscrizione. Invece bisognerebbe ottimizzare i costi, come si fa in ogni azienda sana, magari facendo ruotare le persone che prestano servizio”. 

 

Nei trent’anni in cui ha lavorato a Monza (in realtà dal 64 al ’66 presso AC Milano; dal 67 al ’70 presso la Csai ma pagato dalla Sias, quindi in servizio fino al ’69 all’Autodromo) come ha visto cambiare l’autodromo e cosa ne pensa del terremoto che è successo con la passata gestione?

 

“Sulla spinta di Bertett e Bacciagaluppi, l’allora direttore dell’Autodromo, l’impianto monzese ebbe una grande evoluzione. Basti pensare all’unificazione di tante e formule e delle classi Turismo, prima fino a 1000 cc, 1600 cc e Oltre, poi fino a 1000 cc, 2000 e Oltre, grazie alla quale si ebbero finalmente gare con tante vetture e più chiarezza. Tutto partì da Monza. Poi Bacciagaluppi rilanciò la Coppa Intereuropa, una classica dell’Autodromo. Anche lui, come Bertett, era una persona molto intelligente e un trascinatore. Pensava sempre a come migliorare, le corse e la pista. Ad esempio, dopo una gara notando che all’esterno di una curva il passaggio delle auto aveva asportato l’erba pensò a piazzare i cordoli. Così come dopo un incidente si interrogava sempre sulle cause e come fare per risolvere eventuali mancanze. E sapeva già parlare bene inglese e francese, all’epoca non era da tutti e questo agevolava i contatti internazionali. Fin quando c’è stato Bacciagaluppi l’Autodromo di Monza è stato in equilibrio, poi è stata come una malattia che ha contagiato tutti. Come ho detto, è sempre una questione di uomini”.

 

Adesso c’è una nuova squadra, come la vede?

 

“Mi pare che abbiano fatto qualcosa uniti e con impegno. Spero proseguano così, perché sono loro che devono imprimere la voglia di fare a tutto il personale. Perché c’è molto da fare per rimettersi al passo. Fino al 1990 Monza ha retto il confronto con altri impianti internazionali, anzi possiamo dire che fosse all’avanguardia, perché c’erano il museo, molti negozi di merchandising e molte casette di rappresentanza per Case e sponsor, quello che hanno ora gli impianti moderni. Poi c’è stata un’involuzione, come per i soci AC Milano che da 50.000 sono scesi alle poche migliaia delle ultime elezioni. E questo è il risultato degli errori di alcuni presidenti”.

 

In tema di uomini, cosa ne pensa della rivoluzione che c’è stata in Ferrari con l’eliminazione di un personaggio come Luca di Montezemolo che sembrava intoccabile, anche per i buoni risultati commerciali. Vede una certa analogia con quanto avvenne alla sua squadra?

 

“No. Quella decisione di Ferrari scaturì da questioni famigliari, con nove dirigenti silurati in cinque minuti, mentre l’operazione messa in atto da Marchionne è partita da questioni industriali. D’altronde, con l’ultimo titolo iridato vinto nel 2007 e con i conti stratosferici del Reparto Corse che incidono in modo pesante sulla parte industriale senza vincere, quindi fornendo anche poco stimolo alla produzione, Marchionne deve aver valutato che i conti non gli tornavano decidendo di azzerare tutto. Probabilmente gli uomini, a tutti i livelli, si erano un po’ seduti e il presidente aveva altre distrazioni. Enzo Ferrari aveva imparato a fare l’industriale senza soldi, organizzando una struttura per forza di cose agile ed elastica. Lui si è sempre impegnato al massimo per costruire una fabbrica col suo nome che potesse andare avanti oltre lui. Infatti diceva sempre: vivi o morti, in salute o malattia bisogna fare sempre un passo avanti. Inoltre, non voleva essere solo il padrone della fabbrica e del marchio, ma anche della mentalità che doveva animare la fabbrica. Infatti quando arrivai nel 1950 in Ferrari lui aveva 49 anni e l’età media degli operai andava dai 16 ai 25 anni, e gli uomini che lavoravano in Ferrari sentivano l’appartenenza alla fabbrica e il Commendatore con loro aveva un rapporto e un confronto diretto. La migliore pubblicità per l’azienda erano le corse, perché dopo ogni vittoria arrivava l’ordine di qualche macchina”.

 

Enzo Ferrari non era certo un tipo facile, come valuta l’uomo?

 

“La vita di Ferrari è stata un successo pubblico ma un dramma famigliare. E il successo, secondo me, non ha ripagato le pene famigliari. E lui ne soffriva. Una sera, la vigilia di Natale, gli dissi che se non aveva più bisogno di me sarei andato a casa perché mio padre per il cenone voleva riunita a tavola tutta la famiglia, lui mi guardò e con le lacrime agli occhi disse che ero più fortunato di lui ad avere una casa”. 

 

Ma non fu l’unica volta che vide Ferrari in lacrime, vero? 

 

“Fu a seguito dell’incidente di De Portago alla Mille Miglia. Ne restò molto colpito, anche perché venne incriminato per aver usato pneumatici non adeguati alla potenza della vettura. Gli ritirarono il passaporto e dovette andare a testimoniare davanti al PM di Mantova. Ma la sofferenza maggiore la ebbe quando i parenti delle vittime si accalcarono ai cancelli della fabbrica chiedendo un lavoro come riparazione dei danni. Lui non ebbe il coraggio di parlare con loro e si mise a piangere in cortile, ma poi fece grosse pressioni sull’assicurazione perché fossero pagate rapidamente le indennità”.

 

Sempre in tema di uomini, lei ha conosciuto i suoi due figli, Dino e Piero, come li descriverebbe?

 

“Dino aveva preso tutto da suo padre. Piero da sua madre: era buono, gentile, affabile, estroverso”.

 

Come reagì Ferrari alla morte di Dino?

 

“Come sempre. Lui era un despota emotivo. La Ferrari era la sua casa, il suo rifugio”.

 

Lei ha conosciuto bene anche Carlo Chiti, con cui ha condiviso pure l’avventura ATS dopo il licenziamento dalla Ferrari, com’era? 

“L’esperienza ATS è stata positiva e sarebbe stata fattibile, ma purtroppo non ha avuto seguito perché le tre persone coinvolte (Giorgio Billi, costruttore, Volpi di Misurata e Jaime Ortiz Patino, finanzieri) erano troppo diverse tra loro. Chiti era un vulcano di idee, alcune geniali come il serbatoio antifiamma, ma spesso non c’era il tempo di concretizzarle. In Ferrari il Commendatore sapeva tenerlo a freno mentre in Autodelta sappiamo com’è andata. Sono sempre gli uomini che contribuiscono a fare o meno il successo. Anche se in una squadra si vince e si perde assieme”..

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